Quante volte ci capita di sentirci isolati, separati dal mondo?
Quante volte ci sentiamo soli anche in mezzo agli altri?
Quante volte, per quanto ci sforziamo, non c’è niente che ci tenga davvero compagnia?
Si sente dire spesso «Non stai bene con te stesso» che, in fondo, vuol dire tutto e nulla.
E se, invece, non si trattasse di starci bene o male con noi stessi, ma di starci e basta?
Stare con sé stessi, stare con tutti gli aspetti di sé, accettare di starci bene, a volte, o male in altri casi, ma starci.
La solitudine, alla fine, ci accomuna tutti.
Chi può dire di non aver mai vissuto questa esperienza?
Anche se le emozioni che ne conseguono sono profondamente soggettive o possono essere diverse per la solita persona in momenti di vita differenti.
Giorgio Nardone la definisce «la nostra ombra»1, a voler significare che, in fondo, ci accompagna sempre, talvolta come fedele alleata, altre volte come pericolosa nemica.
Questo perché la solitudine, forse più di ogni altro fenomeno, è caratterizzata da una forte ambiguità: posso sentirmi sola anche in mezzo agli altri o circondata da persone che mi amano o posso vivere la solitudine come la più preziosa delle compagne.
Nel senso comune siamo più orientati a pensare che la solitudine sia connessa a un senso di mancanza, di vuoto.
Vuoto che a volte tendiamo a riempire, pur di non sentirlo, anche con cose che in fondo non destano il nostro interesse, che non sono importanti per noi.
In realtà esiste anche una solitudine “piena”, se così mi permettete di definirla.
Una solitudine che ci arricchisce perché ci consente di sintonizzarci sul nostro “sentire”, così come sul nostro “essere”, permettendoci, in qualche modo, di stare in contatto con noi stessi.
Magari proprio con le parti di noi delle quali non riusciamo a sostenere lo sguardo, quelle delle quali non vogliamo ascoltare la voce.
Ma che continuano a osservarci e a parlarci anche quando vogliamo confonderle nella folla di occhi e di parole che riempiono le nostre vite.
Mi viene quindi da pensare che spesso ci sentiamo soli perché, forse, ci sentiamo persi: perché abbiamo perso il senso di noi stessi e quindi anche di chi siamo in relazione agli altri.
E se perdiamo il senso di noi stessi, non perdiamo il nostro rifugio più sicuro, il nostro laboratorio di idee, emozioni e intenzioni?
Non perdiamo quel meraviglioso, intimo e a volte struggente teatro dentro al quale sperimentare e rappresentare ogni parte di noi?
In questo senso imparare a stare da soli, seppur complesso e, a volte, anche doloroso, può aiutarci a comprendere il vuoto trasformandolo in “pieno” attraverso il dialogo con noi stessi.
Immaginiamoci come degli artisti dentro al nostro studio, isolati dal mondo nell’ambita ricerca di quella solitudine che ci permetta di liberare la nostra creatività, dando voce, colore e forma al nostro mondo interiore.
Immaginiamoci di sperimentare quella sensazione di contatto profondo, quell’accogliente riconciliazione, quel fresco germogliare che è la compagnia di noi stessi.
Quella sensazione di non essere effettivamente soli, perché “tutto” è già dentro di noi.
[1] Nardone G., La solitudine. Capirla e gestirla per non sentirsi soli, Ponte alle Grazie, Milano 2020
Autore
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Laureata in Psicologia nel 2007 all’Università degli Studi di Firenze e iscritta all’Ordine degli Psicologi della Toscana, specializzata in Psicoterapia Sistemico-Relazionale presso il Centro Studi e Applicazione della Psicologia Relazionale di Prato e socia della Società Italiana di Psicologia e Psicoterapia Relazionale. Si occupa di interventi rivolti al singolo, alla coppia e al nucleo familiare, ma opera anche in contesti più ampi in qualità di consulente nel settore organizzativo.
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